L’acqua: una nuova possibilità per il villaggio di Zammour

Oggi ci lasciamo condurre, dalle parole di Enrico in Tunisia, uno dei paesi in cui Overseas da tempo sostiene progetti di cooperazione internazionale legati a sviluppo rurale ed empowerment femminile.

Dove siamo?

Il progetto Clef, conclusosi a gennaio 2021, è un ampio progetto che non si occupa solo di recupero e riuso dell’acqua bensì dello sviluppo rurale delle donne su quattro regioni della Tunisia. Tra le attività proposte, una di queste è la costituzione di parcelle agricole irrigue in due regioni del progetto. Nella prima sono state fatte sistemazioni agrarie con serbatoi e sistemi irrigui grazie alla presenza di un’oasi che garantiva la presenza di acqua. Nella seconda regione, quella di cui parleremo oggi, una delle più aride del paese, in cui non esistono risorse di acqua dolce, sono stati realizzati piccoli sistemi di recupero e riuso delle acque grigie domestiche perché l’unica fonte di acqua è l’acquedotto pubblico.

Siamo a Zammour, una municipalità all’interno del governatorato di Medenine, a Sud della Tunisia. Si tratta di un piccolo villaggio composto da circa 3000 abitanti, forse 800 abitazioni. Situato all’interno della catena dei monti dell’Atlante, che si estende dall’Egitto al Marocco, un tempo tutto questo territorio era semi coltivato perché lavorato con un sistema di terrazzamenti all’interno delle gole delle montagne. Così l’acqua veniva raccolta e permetteva di coltivare qualche pianta da frutto (olivi, fichi e mandorli) nonché cereali che non avessero bisogno di grandi quantità di acqua.

Come funziona il sistema di recupero e riuso delle acque grigie domestiche?

Per acque grigie si intendono tutte le acque di scarico domestico provenienti da lavandini, docce e vasche; acqua di minor pregio che può essere recuperata, trattata e riutilizzata per scopi non potabili. In questo piccolo villaggio della Tunisia queste vengono convogliate in un sistema di fitodepurazione che si compone di tre fasi.

Il primo serbatoio funge da decantazione e ‘de-grassazione’: qui vengono separati i grassi e decantato il materiale pesante.
Il secondo serbatoio prevede invece la vera e propria fitodepurazione. Qui vi sono delle piante, le fragmiti, comunemente definite ‘canne palustri’, sono la specie che maggiormente è in grado di filtrare l’acqua.

Infine l’acqua dalla seconda vasca, secondo un sistema a ghiaia che filtra ‘a caduta’ (che non prevede elettricità, né pompe, né pressione) sfrutta la pendenza naturale del terreno e passa alla terza vasca, di stoccaggio, per poi essere utilizzata per l’irrigazione.
Al di sotto di questi micro impianti di depurazione vi sono delle piccole parcelle irrigue, ossia parcelle agricole e impianti di irrigazione a goccia che attraverso dei rubinetti sono tutti parzializzati di modo che uno possa irrigare in modo mirato. Al momento si tratta di cinque impianti di dimensioni abbastanza simili tra loro, ma questa dipende dal numero di abitanti dell’abitazione e quindi dal consumo di acqua. Attualmente la superficie totale recuperata grazie a tale sistema è di circa di tre ettari e mezzo. Tramite queste parcelle è possibile coltivare orti ma anche erbe officinali e medicinali che vengono utilizzate all’interno dell’atelier per la distillazione di olii essenziali e di acque profumate, come previsto all’interno sempre del progetto Clef.

I beneficiari, le donne, sono infatti inserite all’interno di un programma più ampio di formazione circa l’utilizzo a 365° del sistema irriguo a goccia: come, quando e perché irrigare.
Data la sostenibilità di tale sistema irriguo, esso rimane altamente ripetibile e migliorabile. Nonostante il progetto si sia concluso, il sistema di irrigazione proposto e adottato in questi mesi continuerà ad essere portato avanti per almeno i prossimi 30, 40 anni. Con il passare del tempo aumenterà il livello di sviluppo delle piante che attuano la fitodepurazione e questo aumenterà il potere filtrante, aumentando l’efficienza dei microimpianti.

Quale impatto sul territorio e la popolazione?

L’impatto è enorme: si è passato da avere terreni incolti, siamo alle porte del deserto e possono passare anche anni senza piogge e anche quando piove questa non è sufficiente per coltivare in maniera redditizia. Se fino ad ora una delle poche attività era il pascolo delle pecore e delle capre per mangiare la poca erba che spontaneamente cresceva, i microimpianti offrono la possibilità di coltivare quasi 365 giorni l’anno. Questo contribuisce anche ad evitare l’erosione del suolo che in queste aree è molto forte.

Per quanto riguarda l’impatto sul resto della popolazione del villaggio, è nata una cooperativa dall’unione delle donne che hanno partecipato al progetto e utilizzano l’atelier. Allo stesso modo alcune donne sono state finanziate per aprire una loro attività, laboratori tra cui piccoli caseifici e di produzione del sapone tramite gli olii essenziali, molte sono apicoltrici. Nel tempo si è passati da una situazione di sussistenza a fornire l’opportunità per queste donne e le loro famiglie di arrivare all’autosufficienza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.